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la linea ferroviaria Qinghai-Tibet
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PECHINO - "Dopo 4 anni di costruzione su un terreno aspro, la linea ferroviaria Qinghai-Tibet è quasi ultimata", annuncia trionfalmente Pechino...

pubblicato anche su: repubblica.it


PECHINO - "Dopo 4 anni di costruzione su un terreno aspro, la linea ferroviaria Qinghai-Tibet è quasi ultimata", annuncia trionfalmente Pechino. Una delegazione del governo centrale è in visita a Lhasa per vantare i meriti delle opere con cui la Cina modernizza il Tibet, "salvandolo" dal suo passato d'"oppressione feudale e povertà". Oggi la leadership comunista celebra i 40 anni dalla trasformazione dello Xizang ("la Dimora del Tesoro occidentale", il nome cinese del Tibet) in regione autonoma.

In effetti il 1º settembre 1965 segna il definitivo passaggio sotto l'amministrazione della Repubblica popolare che soffocò i sogni di indipendenza. La ferrovia da Golmud a Lhasa riassume le contraddizioni della politica cinese. Lunga 1.142 chilometri, di cui 960 a un'altitudine superiore ai 4.000 metri su terreni eternamente ghiacciati, è un'ardita testimonianza delle capacità industriali della Cina. Per ammissione del Dalai Lama (il leader religioso in esilio) fa parte di uno sviluppo economico benefico per la popolazione locale. Ma la ferrovia è anche sotto accusa per l'offesa a un ecosistema naturale finora incontaminato.



Ed è il simbolo di quella "conquista del Wes"" con cui l'etnìa dominante dei cinesi Han schiaccia il Tibet sotto il peso demografico della sua immigrazione: i militari di stanza a Lhasa sono quasi tutti Han, come i dirigenti del partito comunista locale, e senza ironia il regime comunista si arroga il diritto di consacrare i "veri" lama reincarnati. Quanto si salverà dell'antica civiltà tibetana, è un interrogativo a cui le celebrazioni di oggi non danno una risposta rassicurante. Per festeggiare il 40mo anniversario della normalizzazione amministrativa Pechino ha elargito finanziamenti per il restauro del palazzo Potala, il più celebre monumento della capitale tibetana Lhasa. Ma un tempo quel palazzo era la dimora dei Dalai Lama che vi abitavano con una folla di religiosi. Oggi il Potala ridipinto di fresco è morto come un museo, ridotto a una curiosità per comitive di turisti. Per un fedele buddista l'offesa equivale a ciò che proverebbe un cattolico di fronte a San Pietro e il Vaticano trasformati in parco-divertimenti.
Con 3,8 milioni di chilometri quadrati di superficie, quanto l'Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5 per cento dei cinesi.

Questa immensa regione di montagne e altipiani ha sempre attirato gli appetiti dei vicini per la sua posizione strategica (fra Cina e India), perchè controlla riserve d'acqua vitali per tutto il continente (lo Yangze, il Fiume Giallo, il Mekong, l'Indu, il Brahmaputra nascono qui), e giacimenti di minerali preziosi dall'oro all'uranio. Le mire coloniali della Cina sul Tibet sono una costante nella storia, che non varia con i regimi politici: l'indipendenza di Lhasa non viene accettata neanche dalla Cina repubblicana che dopo il 1911 succede brevemente alle dinastie imperiali. Il 13mo Dalai Lama, predecessore dell'attuale, nel 1931 lancia un ammonimento: "Dobbiamo essere pronti a difenderci altrimenti le nostre tradizioni spirituali e culturali saranno sradicate. Perfino i nomi dei Dalai e Panchen Lama saranno cancellati. I monasteri verranno saccheggiati e distrutti, monaci e monache uccisi o scacciati, diventeremo schiavi dei nostri conquistatori, ridotti a vagabondare senza speranza come mendicanti". Appena un anno dopo la rivoluzione comunista, Mao Zedong si affretta ad avverare quella profezia. Già il 1º gennaio 1950 Radio Pechino annuncia per il Tibet l'imminente "liberazione dal giogo dell'imperialismo britannico" (la limitata influenza britannica in realtà era finita con la seconda guerra mondiale e l'indipendenza dell'India). Manipolati dagli emissari di Mao, il Dalai e il Panchen Lama, allora adolescenti, accettano di firmare messaggi in cui chiedono l'intervento della Cina. Il 7 ottobre di 55 anni fa quarantamila soldati dell'Esercito di liberazione popolare attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano in tutto il Tibet occidentale uccidendo ottomila dei suoi soldati.

L'Europa tratta l'invasione come una questione interna cinese, l'America già impegnata a difendere la Corea non osa sfidare Mao, negli annali delle Nazioni Unite a quella data l'unico Paese che solleva la questione è il Salvador. Inizialmente le truppe d'occupazione seguono istruzioni astute per accattivarsi la popolazione locale: non si abbandonano a saccheggi e violenze, corteggiano il consenso della nobiltà e del clero buddista. Nel 1954 il Dalai e il Panchen Lama invitati a Pechino da Mao vengono sedotti dal leader comunista, che solo alla fine del loro soggiorno getta la maschera accusando il buddismo di essere un "veleno". Tornati in patria i due giovani leader religiosi scoprono che lontano da Lhasa, nelle provincie di Amdo e Kham, le milizie comuniste hanno già cominciato a svuotare i monasteri. Repressione e arresti di massa scatenano nel 1955 le prime fiammate di insurrezione armata, a cui partecipano i monaci buddisti. A quel punto l'America ha combattuto direttamente contro i cinesi in Corea, e la Cia viene incaricata di addestrare la resistenza tibetana (l'aiuto verrà interrotto da Richard Nixon e Henry Kissinger nel 1971 dopo il disgelo con Mao). Nel 1956 Pechino scatena una delle sue offensive più sanguinose, con 150.000 soldati e bombardamenti a tappeto. Nel 1959, quando il Dalai Lama in pericolo di vita fugge in esilio in India, la repressione cinese ha fatto 65.000 vittime, altri 70.000 tibetani sono deportati nei campi di lavoro (laogai) e 80.000 hanno attraversato il confine indiano o nepalese per finire negli accampamenti di profughi. Il peggio deve ancora venire. Proprio nel 1965, quando il Tibet viene annesso definitivamente come "regione autonoma", diventa uno degli esperimenti estremi della Rivoluzione culturale. Il fanatismo radicale delle Guardie rosse aizzate da Mao devasta uno dei più ricchi patrimoni artistici e archeologici dell'umanità. Molto prima dei talebani in Afghanistan o di Pol Pot in Cambogia, i comunisti cinesi decidono di annientare tutto ciò che ricorda la religione: castelli e statue, dipinti e libri antichi vengono distrutti. Su seimila templi e monasteri censiti prima del 1959 non ne resta intatto neanche uno nel 1976, dopo dieci anni di Rivoluzione culturale. Stremati anche dalle carestie, i tibetani non perdono però la volontà di resistenza. Basta un allentamento del controllo, quando nel 1980 il riformista Hu Yaobang diventa il numero uno in Cina, e le insurrezioni tornano a moltiplicarsi negli anni 80. Finchè Pechino manda a commissariare il Tibet un giovane burocrate in ascesa, Hu Jintao: l'attuale presidente della Cina. L'8 marzo 1989 Hu dichiara la legge marziale in Tibet e scatena un'altra repressione sanguinosa. È la prova generale del massacro di Piazza Tienanmen.

Dopo di allora la normalizzazione ha imboccato un'altra strada, quella della ricchezza capitalistica che affluisce insieme con la colonizzazione Han. Qualche segno di ammorbidimento c'è stato: il buddismo delle lamasterie viene tollerato, il pellegrinaggio a Lhasa è perfino diventato di moda tra i figli della nuova borghesia rampante di Pechino e Shanghai. Il Dalai Lama (premio Nobel per la pace nel 1989) ha da tempo abbandonato l'obiettivo dell'indipendenza, si accontenterebbe di un'autonomia che preservi la cultura del suo popolo. La Cina continua a rifiutare di riconoscerlo.
 
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