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Santa Croce in Lecce
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Articoli di architettura
Santa Croce in Lecce

Scritto da: Antonio Minosi ( antoniominosi@interfree.it )





1. QUADRO STORICO-CULTURALE  DEI  RAPPORTI  LECCESI.

 

La chiesa, legata al quadro politico ed economico-sociale del viceregno napoletano conservava con ogni sforzo gli equilibri sociali attraverso iniziative di carattere caritativo-assistenziale e tramite la predicazione popolare, affidata agli ordini religiosi emersi con il concilio di Trento.

Un personaggio emblematico della chiesa salentina è il vescovo  Luigi Pappacoda (1639 - 1670) che fu mediatore nella rivolta tra il popolo di Nardò (LE) e il Conte Giangirolamo Acquaviva risoltosi con il potere del Guercio di Puglia.

Comunque, dai moti popolari detti di Masaniello, il prestigio del vescovo Pappacoda aveva avuto successo riuscendo ad intraprendere l’ambizioso disegno di esaltare il primato di Lecce sull’intero Salento e di potenziare la struttura urbana mediante architetti.

Per la realizzazione del suo progetto il vescovo Pappacoda investì ingenti somme di denaro incaricando tra i vari architetti Giuseppe Zimbalo, architetto di fiducia.

Quindi, tra il 500 e il 600 Lecce aveva assunto un aspetto urbanistico nuovo. In seguito a investimenti sempre più massicci si costruirono nuove chiese, si ristrutturarono i vecchi conventi e tutto ciò si rifletté su di un aumento dei religiosi pari al 12% dell’intera popolazione cittadina.

In questo periodo sotto l’arcivescovado di Pappacoda il “Barocco Leccese” prese forma con i suoi caratteri di un naturalismo orgiastico che si attenua con la presenza dell’architetto Giuseppe Cino che a differenza di Zimbalo e di Cesare Penna  contribuirà a dare un tocco di gentilezza alle forme plastiche e agli stilemi architettonici.

Con la morte del Cino nel periodo della fine del dominio spagnolo il barocco leccese perde la pesante coltre di un ornato accademico e sovrabbondante e si attesta entro schemi di rarefazione e di leggerezza dove predominano il disegno e l’equilibrio dei ritmi.

Questo mutamento si è avuto con l’inserimento del regime Borbonico che rinnovò il clima storico di Lecce che era stata soggetta ad un periodo starico dominato e controllato, dove gli spazi d’autonomia dell’uomo diventavano più ristretti.

Non è un caso che con l’inizio del settecento si costruiscono a Lecce più palazzi che chiese, intensificando gli scambi con Napoli, Roma e Venezia. Infatti Federico II si ritiene responsabile dell’innesto nel meridione italiano di maestranze cistercensi, portatrici di organismi gotici reticolari e complessi, risolti con la Volta Ogiva Costolonata, che troviamo diffusa nel Salento, dove la materia prima è la pietra leccese  (ricavata dalle cave di Muro Leccese), particolarmente tenera alla lavorazione ma dura con il continuo contatto con l’aria così si svilupparono le tecniche di copertura più complesse geometricamente; con l’uso agli spigoli e nelle linee di colmo di cordoni decorativi in forma di festoni rettilinei la cui tecnologia è molto precisa.

Naturalmente tenuta presente, la rinascita benedettina dopo il declino subito nel XIII secolo ci interessano particolarmente i Celestini che entrati in Puglia nel 1294 si diffusero verso la fine del XV secolo anche nel Salento, a Lecce, a Galatina (vedi la basilica di S. Caterina simbolo della lotta sostenuta dai Francescani per sradicare la tradizione Greco-Bizantina che improntava in sé il culto, la lingua, il costume, l’arte del Salento).

L’ ordine dei Celestini fu fondato dall’ ex papa Celestino V, il discusso papa di Dante (“ l’ombra di colui / che fece per voltate il gran rifiuto.” INF. III 59-60)

Verso il XVI secolo il convento dei Celestini si trasferì nella sede attigua alla Basilica di S. Croce (dov’è oggi la prefettura).

Un altro ordine che si diffuse in numerose località pugliesi ma ebbe poca fortuna in terra d’Otranto fu quello dei Cistercensi di origine francese. A servizio dei Francescani (Celestini), spalleggiati da Maria D’Enghein e dagli Orsini accorsero dalla campagna molti artisti di varia esperienza che coprirono volte, pareti di cripte e affreschi Bizantini tentando così di sostituire una nuova iconografia e una nuova devozione a quella greca.

Fecero affluire le prime opere da Venezia: Immensi polittici (composizione dipinta o scolpita suddivisa in più elementi, destinata all’ altare di una chiesa) commissionati da ricchi conventi e monasteri. Questo è un fatto episodico visto che i rapporti con Napoli e il territorio campano si consolidarono, nel XVI secolo.

Ma il contatto avuto con il territorio Veneto trasformò il barocco leccese da fragoroso ad una vena più sottile nella decorazione, più raffinata; così le forme barocche leccesi si vanno sempre più impreziosendo fino a raggiungere nel settecento aspetti di squisita eleganza nei palazzi dai portali cesellati, dalle finestre incorniciate a modo di preziose specchiere (tipo seminario o palazzo dei Celestini).

Nella seconda metà del XVI secolo si costruì Santa Croce, primo monumento barocco del Salento.

Il barocco leccese è un fenomeno tipicamente locale e affonda le sue radici in un contesto storico anticlassico.

Le sue manifestazioni si hanno proprio a Lecce nella chiesa di Santa Croce iniziata da Gabriele Riccardi nella seconda metà del XVI secolo.

A Santa Croce seguono, nel giro di pochi decenni, le chiese di Gesù, di Santa Irene, di Santa Maria delle Grazie.

A questa prima ondata succederà l’esplosione del vero barocco leccese allorquando a Gabriele Riccardi e Francesco Antonio Zimbalo, seguiranno Giuseppe Zimbalo e Cesare Penna fragorosi e crepitanti per poi nel settecento i più eleganti e raffinati Carducci Achille e Giuseppe Cino.

Capolavoro di quest’ultimi resta il Palazzo del Seminario eretto su disegno di Giuseppe Cino, e il Palazzo della Prefettura (convento dei Celestini) attribuito allo Zingarello (G. Zimbalo) e al Cino.

Da Lecce il fenomeno dilaga investendo tutta la provincia salentina, cui dona la unitaria fisionomia inconfondibile che si differenzia da tutte le altre province pugliesi.

Nel barocco in genere la scultura e la pittura viaggiano di pari passo infatti, ci fu un’esplosione della pittura salentina che trova i suoi più illustri esponenti in Antonio Verrio.

Di quest’artista è affascinante la personalità artistica e la sua vita avventurosa, peregrinando da Napoli a Venezia, da Tolosa a Parigi fino a Londra nella corte degli Stuart.

La vita artistica del Verrio fu classificata in 3 sezioni: La prima formata da opere autografe  tra cui la più importante è il Martirio di Santo Stefano nella chiesa di Santa Irene, Opere basate sulla forme e sul colore di impronta Toscana e Veneziana messa assieme. La seconda personalità artistica operante alla Corte degli Stuart, gran decoratore e magniloquente celebratore dei fasti di quella dinastia e a Roma delle glorie della famiglia Spada.

Altrettanto fantomatica fu la figura del terzo Verrio.

L’unica provincia artistica pugliese a mantenere l’epoca d’oro della pittura nel Salento è stata Lecce, tant’è che riuscì a mantenere un proprio carattere e una validità.

Ma nell’ ottocento il provincialismo giunge a soffocare anche il glorioso Salento, sicché anche i figli migliori non riescono a trovare in patria un ambiente adatto nel quale sviluppare il loro talento ed emigrarono a Napoli.  

 

 

2. ARCHITETTURA SALENTINA  TRA  INNOVAZIONI        E CONTINUITÀ’.

 

Il contesto e il periodo che esamineremo, sono un campione storiograficamente significativo.

Infatti i monumenti di massima tensione dei linguaggi, e delle manifestazioni culturali sono quelli che mutano i costumi sociali, che tende a forzare verso un evoluzione non univoca la struttura tradizionale dei rapporti intersoggettivi.

Tale processo non è graduale, cioè tale da essere assorbito in una catena di mutamenti parziali con il patrimonio culturale.

Lo scheletro normativo dei rapporti sociali viene assoggettato a spinte verso una trasformazione che comporta il pericolo della distruzione di una trasformazione dell’identità culturale.

Trasformazione che comporta il pericolo della distruzione di una cultura per dar luogo alla nascita di un’altra.

E ciò spiega l’insorgere, di fronte alle spinte innovative, per quanto utili possano essere.

Il processo di trasformazione diviene, così evolutivo; mentre nel linguaggio si riscontrano resistenze.

In architettura si riscontra l’aggressività delle forme stilistiche che si pongono come nuove e rinnovatrici.

Non vi è dubbio che il Salento, negli anni che seguono la battaglia di Lepanto, registra nell’ architettura e nella città una simile tensione: finito l’ incubo del mare e dell’ oriente, si guarda nell’ entroterra e ai suoi difficili equilibri tra nobili e corona, tra Francia e Spagna, Tra Riforma e Controriforma.

Di fronte ai profondi mutamenti demografici e produttivi le stesse strutture di potere sembrano essere incerte.

In architettura la chiesa del Gesù e Santa Croce sorgono quasi contemporaneamente e quasi di fronte. Esse sono capisaldi del processo innovativo e della sua legittimazione.

Questi i due poli qui individuati: l’ autorità esterna e imposta dai modelli classicisti, evidente nel Gesù e la vitalità delle tradizioni locali, ribollente in Santa Croce entrano in diretto confronto nell’ architettura promossa dal vescovo Pappacoda  in una grande pacificazione la quale i conflitti si mutano da violenza a festa.

La posizione più “seccamente” innovativa è rappresentata dai Gesuiti e dai Teatini portatori di un linguaggio architettonico ortodosso ai dettami centralistici della controriforma espressi a Roma e a Napoli. Gesuiti e Teatini affrontano il problema della riorganizzazione culturale in Lecce avviando un processo di trasformazione attivo su due fronti: da un lato di evitare l’esistenza di antiche eresie culturali e culturali-esistenziali nella società locale con i suoi ordinamenti e costumi, dall’ altro di impedire lo sviluppo di nuovi canali conoscitivi verso la scienza e il lavoro.

Per i Gesuiti si tratta di affermare una linguistica unificata, il  “Modo Nostro” di fare le chiese e i collegi, secondo leggi progettuali rigorosamente codificate e legate alla disciplina della compagnia.

Questa fedeltà a un progetto giunto da fuori, definito e controllato in ogni sua parte, la si nota nella raggelata dignità burocratica della facciata del Gesù di Lecce, rispettosa agli schemi prefissati e prima di qualsiasi manifestazione di vitalità e spontaneità artigianale.

Tuttavia la diplomazia dei Gesuiti nel Salento è contrastata, e deve fare i conti con la rigidità del controllo  centrale della compagnia che come noto, già intorno al 1560 era esercitato tassativamente su qualsiasi realizzazione di edifici religiosi dell’ ordine. Nel 1562 fu ordinato di non mettere mano ad alcuna fabbrica senza prima aver ricevuto il disegno da Roma “Al modo che usa la compania”.

Meno resistenza fu fatta all’azione dei Teatini anche essi portatori di tecniche e linguaggi centralistici, ma meno rigidi nella loro applicazione e più fondati in una cultura centromeridionale.

I patrizi leccesi (nobili), nell’ anno della battaglia di Lepanto, chiusero una casa dei Gesuiti perché volevano porre un’ulteriore barriera culturale tra il sistema delle alleanze di potere e la popolazione.

Al potere c’era Carlo V che aveva imposto a Lecce l’ alternanza annuale di sindaci patrizi e civili. Ma nei successivi 47 anni si ebbero 31 sindaci patrizi contro 16 civili.

Per cui nel 1573 essendo la tensione politica al colmo, giunge ad imporsi la borghesia con il sindaco civile Caputo; si scatena una fase di rivolte e vendette di cui fanno le spese anche i Gesuiti, cui viene imposto il divieto di abitazione anche provvisoria.

Ma la capacità diplomatica dell’ arcivescovo Annibale Saraceni, fece in modo di rendere possibile una radicale inversione di tendenza; infatti l’ anno successivo al divieto sempre con Caputo vengono offerti 3000 scudi d’ oro per la venuta dei Gesuiti e nel 1574 la città accolse in festa i rappresentanti della compagnia.

Da questo momento ha inizio la reazione di rigetto fisiologico, bilanciata dall’ azione di penetrazione da parte dei Gesuiti che in meno di un anno inizialmente alloggiati alla meglio, poi avendo ottenuto alcune case e la chiesa dell’ Annunziata, hanno abbastanza potere da distruggerla e di avviare un piano che comporterà la demolizione di un’ altra chiesa: S. Niccolò.

Nel frattempo i Gesuiti divennero sempre più forti.

Occorreva un gran progetto per la chiesa del Gesù: Il gesuita Giovanni de Rosis  ne fece il disegno che fu approvato da Roma. Purtroppo non poté eseguire i lavori perché impegnato a Roma.

Per questo il Barrella osserva con rammarico che la chiesa non poté liberarsi interamente dello stile locale e si riferisce ad una figura: il Pellicano Ritto, con i suoi piccoli sull’ asse del coronamento. In realtà il pellicano è simbolo della incarnazione e della castità; esso è intento ad aprirsi le carni a colpi di becco per nutrire i suoi piccoli, divenendo emblema di redenzione e carità.

Per quanto inusuale, è simbolo di Cristo come molti elementi sulla facciata. al centro del frontone spezzato, come nell’ ordine superiore, dotato di lesene ioniche e di fregio dorico: (fotocopie) 

L’ impegno per la realizzazione della chiesa del Gesù è enorme. Ma l’ artigianato locale è pronto alla rivincita, cogliendo l’ occasione offerta dai Celestini con la realizzazione della chiesa attigua al loro monastero: Santa Croce a brevissima distanza e quasi di fronte al Gesù.

Quindi negli ultimi decenni del ‘500 a Lecce c’ erano da una parte i Gesuiti con la loro maniera convenzionale e fredda di costruire e dall’ altra quella più vitalistica e comunicativa rappresentata dal leccese Riccardi.

Tuttavia gli atteggiamenti sono diversi: più irrigidita sulla disciplina dei trattati in un disegno di egemonia centralista: quella dei Gesuiti; più creativa ed aperta al compromesso con i linguaggi tradizionali e con i repertori agricolo-dionisiaci quella dei Celestini.

Entrambe sono basate sulla chiarezza dei significati; entrambe cercano una legittimazione nel passato anche se in modo diverso.

Accanto a questi due atteggiamenti, ve n’ è un terzo, quello dei Teatini che si accostano alla posizione Gesuita ma con maggiore concessione alla monumentalità coinvolgente e allo spettacolo.

Abbiamo una chiesa dovuta a un padre Teatino: Santa Maria delle Grazie di Michele Coluzio. (fotocopie)

Assume gran rilevanza la partitura centrale, evidenziata dalla notevole plasticità dei timpani ampi e profondi, curvo quello inferiore e triangolare quello superiore, e mobilitata dalle colonne a tutto rilievo della cultura Domenicana, complessa, libera da convenzioni ufficiali e intenta tanto al recupero dei lessici arcaici quanto al lancio di inedite tematiche formali.

Contano importanti strutture a Muro, Nardò, a Minervino; il più significativo maestro fu Tarantino Giovanni da Nardò.

 

3. SANTA CROCE

 

La visibilità della chiesa barocca di Santa Croce è condizionata dal centro abitato leccese, contesto urbanistico tanto spontaneo ed irregolare.

Si è preferito ubicare la chiesa di Santa Croce nel tessuto edilizio , privilegiando gli assi rappresentativi del decoro urbano.

Per avere un inquadramento scenografico migliore si è preferito arretrare la facciata e il palazzo dei Celestini ad essa contiguo rispetto al filo degli edifici lungo la strada e con l’ adozione di un’ ampia scalinata d’ accesso.

Prevale la veduta parziale e ravvicinata della chiesa incuneata in una serie di edifici che può essere notata vista la propria individualità mediante il trattamento trionfalistico della facciata.

Le memorie storiche di questi due edifici, quali: Santa Croce e il Monastero dei Celestini, nel 1353 Gualtiero di Brema, conte di Lecce, duca d’Atene e signore di Firenze, fondo in Lecce un monastero di Celestini dalla vigorosa quercia benedettina con chiesa sotto il titolo di Santa Maria dell’Annunziata e di San Leonardo.

Nel 1539 Carlo V riedificò le mura e fabbricò il castello della città; il convento e la chiesa furono trasferiti dove si vedono tuttora e il sepolcro della regina Maria d’Enghein disfatto, costruito vista la devozione che aveva la contessa per i Celestini.

I monaci beneficiarono sia della chiesa e del monastero per 358 anni fino al 1897 quando per la legge del decreto 13/2/1807 furono soppressi insieme ad altri ordini nel regno.

Nel 1549 si cominciò la riedificazione della chiesa e del monastero nel luogo in cui oggi si vedono.

Nel 1606 fu costruito ed affissa la porta orgoglio dei monaci e dell’ abate.

La facciata del monastero della parte della città fu incominciata nel 1559 e finita nel 1697.

Con il decreto 28/11/1811 fu dato il monastero alla città per stabilirvi la sede dell’ intendenza. Furono apportate modifiche del prospetto approvate dalla regina Carolina del regno di Napoli. In questo edificio furono collocate diverse sedi come: Archivio provinciale, Ufficio del telegrafo elettrico, Museo provinciale agli inizi del XIX secolo.

L’ atrio del monastero inquadrata da 24 archi con 44 colonne sulle quali vi corre tutto intorno un balcone. Nei capitelli, nelle pietre a chiave pendenti delle volte, negli angoli del portico quadrilatero vi sono scolpite lettere iniziali, armi familiari di abati del monastero.

Delle prime mutilate con un vandalismo ineccepibile solo 14 sono riconoscibili ma indecifrabili e 7 riconoscibili.

Nel palazzo della prefettura (monastero) albergo Ferdinando II nel 1844 e poi nel 1859 dove qui prese il morbo che lo portò fino alla morte; vi alloggiarono inoltre i Savoia.

La pratica per l’ adattamento del monastero a palazzo dell’ intendenza ebbe inizio il 28 maggio 1811. I lavori iniziarono 1814 fino al 1816.

Nel 1817 il direttore generale dei Ponti e strade di Napoli, Piscitelli, scrisse “Esaminato il progetto della facciata dalla parte della città, oltre ad essere di antichissimo gusto costerebbe molto per gli innumerevoli ornamenti. Ho quindi creduto che una facciata più semplice avrebbe meglio corrisposto all’ economia e al gusto architettonico del secolo”.

L’ approvazione del progetto definitivo ebbe inizio nel luglio del 1817.

Nel 1825 si lavorava ancora per l’ adattamento dell’ edificio durante questo periodo vi era alloggiato il tribunale.

Al progetto della facciata del monastero lavorarono al primo piano Giuseppe Zimbalo mentre i secondo fu realizzato da Giuseppe Cino.

Mentre la facciata di Santa Croce è il risultato del lavoro di tre generazioni di artisti, il cui apporto pur confluente in un unitario tripudio di immagini, può essere distinto con qualche approssimazione, in fasi e atteggiamenti culturali sostanzialmente diversi.

Vi hanno lavorato gli architetti, pittori, scultori leccesi Gabriele Riccardi il maestro Francesco Antonio Zimbalo, Giuseppe Zimbalo  detto lo zingarello e Cesare Penna.

Molti anni durò tale riedificazione, tantè che il tempio fu consacrato solo nel 1582.

Il primo dei citati architetti scultori leccesi ad intervenire per la realizzazione della chiesa fu Gabriele Riccardi che vi lavorò disegnando la pianta e la facciata che però non ebbe modo di vedere finita perché venne sostituito da F. A. Zimbalo dai committenti Celestini che vedevano la chiesa di Santa Croce basata su canoni pagani e medioevali, a differenza del loro intento che era quella di riflettere tramite la costruzione tutto il potere spirituale, divino sull’ intera provincia leccese; e perché la chiesa fu terminata nel 1695.

G. Riccardi  detto comunemente Beli Licciardo noto nella prima metà del secolo XVI secolo a Lecce. Diresse i lavori della chiesa di Santa Croce. In Otranto scolpì le colonne dell’ antica cappella dei S.S. Martiri; nella metropolitana vi si leggeva il suo nome. Morì a 85 anni.

 

Esterno:  Nel 1582 la facciata era terminata solo in parte e precisamente fino al balcone menzolato. E’ impossibile dire dove si sia arrestata la costruzione: non è improbabile che la parte ultimata fosse delimitata dalla trabeazione anche se la previsione delle mensole scolpite in forma d’ uomini e d’ animali è da ritenersi probabile. Sta di fatto che la sospensione segnata dalla fascia corrispondente ai mensoloni è profonda e appare scavata nello spessore della facciata fino a creare un’ ombra assoluta contro la quale le figure caricate dal peso del balcone e proiettate in avanti si stagliano nette, affiancandosi sulla trabeazione.

Riguardo la costruzione muraria si può osservare che, allo scatto in avanti trabeazione in corrispondenza delle colonne, non corrisponde un analogo rilievo nel muro di fondo, alle spalle dei mensoloni figurativi; Quasi che non si sia ritenuto necessario un raccordo costruttivo tra le colonne dell’ ordine inferiore e quelle dell’ ordine superiore.

Mentre ci si è affidati ad un raccordo iconografico essendo le mensole corrispondenti alle colonne costituite da figure umane e animalesche; non certo in base alla plastica delle figure, tutte rifatte periodicamente in seguito al deterioramento provocato, nella tenera pietra leccese, dagli agenti atmosferici.

Il piano inferiore della facciata di S. Croce interrotto sulla trabeazione, con il resto della facciata preannunciato.

L’ ingegno geometrico del Riccardi non è assente: il ritmo di scomposizione della facciata, in cinque parti diseguali, per sei colonne, è rigorosamente misurato dagli archetti pensili disposti sotto la trabeazione, un elemento di repertorio basso medioevale presente in S.S. Niccolò e Cataldo che qui assume un preciso ruolo metrico: tre archetti per gli intercolumni estremi, quattro per quelle delle pareti laterali, undici per quello centrale. (fotocopie)

Il rapporto porte laterali e centrali è di 3:5.

Anche la posizione e la dimensione dei rosoni degli intercolumni minori sembra tutt’altro che casuali. Così un simile rigore geometrico lo si può spiegare nella scelta metodica dei festoni assiali al colmo delle volte dell’ interno della chiesa; elemento non nuovo ma assunto con evidente rigore.

Autore di una pregnanza simbolica è il “Pilastro che ingloba una colonna” presente a scale diverse sul tamburo di S. Croce e ai lati della chiesa stessa e nel sedile di piazza S. Oronzo a Lecce e infine nella chiesa di Minervino.

La colonna simbolo pagano imprigionata nel pilastro cristiano.

La nudità pagana delle colonne del piano inferiore confermata e resa “scandalosa” per la presenza impudica di figure nude ha un ruolo chiaro di superamento segnato dal balcone mensola sul quale danzano angioletti festosi recanti corone simbolo del felice accordo.

I Caratteri della parte Riccardesca di S. Croce in termini iconografici, non possono essere analizzati che in riferimento all’ insieme della facciata, la cui realizzazione copre  quasi un secolo e che presenta caratteri di discontinuità. L’ interno, invece, mostra uno strano equilibrio di natura squisitamente pagana, che la bellezza delle forme rende trionfale.

Le colonne del Riccardi , sia dentro che fuori, sono splendidi fusti nudi dalla leggerissima rastremazione, come si addice ad un ordine composito di 9,5 diametri; ma se tale rapporto canonico è puntualmente rispettato, non altrettanto vale per il capitello al quale è riservata una particolare enfasi plastica ricca di messaggi (secondo i dettami della controriforma), promanano non solo da capitelli festosi ma dal fregio ricchissimo di rappresentazioni figurative.

A questi elementi della facciata sembra riservato il ruolo di esprimere con immagini molto marcate messaggi precisi.

Mentre alle proporzioni dell’ ordine, alla composizione geometrica della facciata e degli spazi interni, retti da precise leggi numeriche, come ai fusti perfetti delle colonne e ai modini esatti della trabeazione, è assicurata un’ osservanza chiara da ogni rigidità manualistica, animata da una profonda fede antidogmatica delle forme e nella corposità di materiale degli elementi canonici. Fede, aperta alla creatività mimetica, sempre sorretta da un controllo indiretto dovuto dai canoni.

Ma come accennai prima, Riccardi dovette vedersela con la politica culturale dei Celestini pressati dalla controriforma e dall’ impegno concorrenziale imposto dalla presenza degli altri ordini e in particolare dei Gesuiti, con la chiesa del Gesù.

Sia i Celestini che i Gesuiti erano finalizzati ad avere con le loro opere una legittimazione nel passato, usando i loro massimi simboli in modo singolarmente diverso; più irrigidita sulla disciplina dei trattati in un disegno di egemonia centralistica, quella dei Gesuiti; più creativa ed aperta con i linguaggi tradizionali, quella dei Celestini.

Certo è che la prima fase costruita dal Riccardi era quasi investita da un empito pagano di cui il Riccardi è il responsabile oltreché genuino. Come si è visto, il tema iconografico impostato è dionisiaco e nudità pagana dell’ ordine architettonico (NELLA ZONA INFERIORE) a rappresentare il mondo classico permeato di demoniaco; il quale è assoggettato e dominato dal mondo celeste (PARTE SUPERIORE), garantito dalla potenza dei  vincitori della battaglia di Lepanto e dalla chiesa trionfante.

In questo ambito, il Riccardi interpreta la parte di umiliare il suo classico dionisiaco esprimendone la soggezione sin troppo “sul serio”, immedesimandosi nei valori di cui sarebbe dovuta risultare la sudditanza, sino a possedere, in un certo senso l’ intera opera, permeandola in una monumentalità antica e intramontabile, mentre l’ ornamentazione di figure nude, orgiastiche, demoniache assume una vivacità e accattivante, che nulla ha a che vedere con la cupa rassegnazione della folla di omuncoli e telamoni.

Nell’ interno il valore simbolico pagano della colonna classica nuda è liberato, con la sovrapposizione al centro del capitello delle teste dei dodici apostoli.

Questo eccesso di significatività che, aderente al copione, diviene invincibilmente ERETICA; è non può aver impressionato i Celestini che possiamo immaginarci impegnati in elaborati slanci di eloquenza all’ inaugurazione.

Sta di fatto che non passano molti anni ed essi si rivolgono ad un maestro per loro più affidabile cioè a F. A. Zimbalo che ha il compito di invadere la facciata riccardiana, precisamente la parte sottostante del balcone mensolato, con tre porte.

Operazione di risimbolizzazione nelle porte si nota un evidente attacco alla logica classica dell’ opera riccardiana. Esse sono basate su rapporti semplici 1:2; ma si estendono da tale limite verso i saldi fusti delle colonne, cercando di occupare la parete nuda di pietra, dalla quale si staccano emergendo per 3/4 in tutta evidenza.

La plasticità delle cornice sembra proprio assumere forme anche paradossali per salire sino a snodare i rosoni e la trabeazione preesistente, non può meravigliare la vistosità spregiudicata degli elementi e lo sforzo “barocco” di attrarre l’ attenzione di chi guarda.

A questo sforzo può avere portato A. F. Zimbalo a ruotare di 45° i basamenti delle colonne binate, un motivo fortemente dinamicizzante, non sconosciuto, all’ ambiente manierista all’ ambiente lombardo-veneto.

Costruì i tre portali e le statue inserite tra le colonne del portale maggiore S. Pier Celestino e S. Benedetto. (fotocopie)

Il portone centrale tende ad invadere tutto lo spazio disponibile attorno alla porta, di cui stravolge le composte proporzioni; anzi gli stemmi posti sulla sua trabeazione con gli altri appoggi che gli sostengono sono portati così in alto da coprire gran parte degli eleganti archetti riccardiani (forse ritenuti fuori uso), e perfino in alcuni punti dell’ architrave.

Anche i portoni laterali dotati di un capriccioso motivo di coronamento portarono il proprio stemma abbastanza in alto da invadere la ghiera dei rosoni.

Non è difficile intuire la finalità di tale intervento rispetto allo schema iconografico da noi attribuito dal Riccardi. Dobbiamo dedurre nel 1606 lo spirito paganeggiante doveva apparire inaccettabile ai committenti che impegnano lo Zimbalo ad imporvi sopra il marchio di una solida coltura confessionale.

I Celestini questa volta, non hanno da lamentarsi: nulla di pagano è rimasto a queste colonne affogate in un denso di ripetersi quasi ossessivo di simboli religiosi, tutti desunti dalla più zuccherosa tradizione iconografica locale e quindi perfettamente comprensibili e digeribili; il Barocco leccese è ormai avviato. Siamo alla vigilia della grande scossa sociale e poi ideologica del 1647, ma l’ esito è scontato.

La sua linguistica nella facciata superiore di S. Croce ne è il manifesto.

Con l’ intervento della facciata superiore il pieno dominio del mondo credente sugli infedeli e le forze primordiali e diaboliche della natura risulta trionfalmente affermata.

G. Zimbalo che è molto probabilmente l’ interprete in termini architettonici dello schema iconografico complessivo richiesto dai committenti, nelle parti più propriamente scultoree passa la mano a G. Penna che ha l’ autorità di incidere il proprio nome sull’ architrave soprastante la statua di S. Pier Celestini, scolpita da lui.

La distinzione delle due mani può essere indicata solo in via di ipotesi, attribuendo al Penna la zona centrale con le figurazioni plastiche di tipo naturalistico che fiancheggiano il rosone, oltre le parti più agitate e irregolari della plastica ornamentale: le cerchiature fiammeggianti con teste di leoni alle reni delle colonne, il fregio che reca le lettere del nome Matteo Napolitano, l’ abate committente che il riccardi ricavò dal modello vasariano nella sala da pranzo del quartiere di Toledo nel fiorentino Palazzo Vecchio.

L’ esuberanza del Penna produce, rispetto alla plastica più contenuta di F. A. Zimbalo, usando i motivi di provenienza antiquaria, come lettere del fregio o i volti infrascati che abbondano su tutto il riquadro, assumono una forza innovatrice dirompente, quasi incontenibile; ma il Penna non fornisce decisivi contributi al nuovo linguaggio del barocco a differenza di G. Zimbalo che senza tradire la committenza alla piena padronanza di un numero elevato di motivi iconografici e ornamentali di effetti plastici a tutte le scale.

Il Penna morì a 46 anni nel 1653 ma non per questo i lavori subirono interruzioni visto che a dirigerli intervenne i due Zimbalo.

 

 

INTERNO: Non essendo condizionato né da ristrettezze topografiche né da angustie finanziarie dei committenti, il Riccardi concepì un’ aula più estesa in lunghezza che dilatata in larghezza, in cui lo spazio, tripartito nelle navate, fosse come nelle basiliche romaniche, raccolto in un lungo e profondo presbiterio, concluso ad abside polilobata, e di due cappelle laterali.

Le tre navate di questa chiesa sono divise da sedici colonne in due ordini: il fusto di esse è alto 5,81 m, il diametro è di 74 cm sono di colore compatto brecciforme cavato non lontano dalla città sulla strada che collega Lecce con Campi Salentina. La sacrestia è opera di G. Riccardi con le volte bellissime e gli ornati di stucco che oggi non sono deperiti del tutto.

Nella navata maggiore era stata formata, un’ impalcatura e sopra e sotto di essa lavoravano in squadra quattro artefici di casa Renzo, Antonio ecc.

Nonostante il numero delle forze e il concorso delle esperienze dei lavori, non più diretti dal Riccardi, non poterono evidentemente bastare i disegni che, avuti dal maestro, i Celestini conservavano, si verificò un cedimento di fabbrica che obbligò gli artefici a smantellare parte delle navate e a ricostruirle a loro danno.

Dopo di ciò furono costruiti i quattro archi trionfali a sesto acuto introdotti per ragioni costruttive, disperdono la nitida prospettiva della navata, con lo sfondo dell’ abside che con le arcate a pieno sesto, usualmente usate in quel periodo, avrebbero meglio coordinato, determinandone una volumetria unitaria;

Ma le arcate a sesto acuto trovavano coronamento nella cupola e risolvono così il verticalismo dell’ intera fabbrica.

L’ interno di S. Croce è fra i più curati e suggestivi di Lecce; nonostante la frequenza degli ornati, esprime un senso di chiarezza, suggerito anche dalla luce che scende abbondante sulle pareti bianche; ha un andamento longitudinale compensato in altezza da paraste che riprendono le colonne e si ricompongono al soffitto; le volte delle navate laterali sono segnate lungo gli assi di simmetria delle crociere, da festoni rettilinei; le tre navate fino al livello della trabeazione ( che corrisponde alla sospensione della loggia esterna ) presentano una struttura armonica che è ben scandita che per le proporzioni  e il taglio “classico” si richiama alla semifacciata inferiore, di cui si possono ritenere dello stesso periodo.

4 anni dopo la costruzione della arco trionfale, la cupola veniva realizzata, riuscendo all interno come la gola di una cisterna e, all esterno si nota l’ alto tamburo cilindrico sul quale posa la cupola con il peduncolo della lanterna.

La superficie del tamburo cilindrico negli spazi compresi tra le otto colonne, è segnata da altrettante arcate, occupate dall’ estradosso delle otto nicchie rivolte verso l’ interno.

Anche il presbiterio nel quale erano il coro dei monaci, il maggiore altare e l’ organo, rivela l’ ascendenza da un altro monumento medioevale, questa volta più gotico che romanico, dal Riccardi considerata e presa a modello la quattrocentesca tribuna poligonale della chiesa di S. Caterina D’ Alessandria a Galatina (LE).

Suggestionato dagli esemplari considerati, il Riccardi con grande capacità di contaminazione e di assimilazione, fu capace di conferire una veste ornamentale sfarzosamente trionfale e turgida.

Allo scalpello del Riccardi sono riconducibili alcuni lavori esemplari per l’ eleganza del disegno e finezza d’ intaglio, nel presbiterio, l’ altare degli Adorno (1558) che fu trasformato in portale e lungo la navata sinistra l’ altare di S. Andrea Avellino.

Vi lavorò attivamente A. Zimbalo eseguendo il portale che divide la chiesa dal convento, l’ altare di S. Francesco di Paola (1614-5) e il ciborio del maggiore altare.

Anche Penna lavorò nell’ interno della chiesa ricordando l’ altare della croce (1637) nel transetto destro, la concepì come l’ ingresso di un edificio, sovrastato dalla loggetta balaustrata, come ad un pulpito si ascendeva da una scaletta, inserì una coppia di statue nelle nicchie laterali.

Quella dei S.S. Andrea e Luca che contribuirono a dare l’ immagine di facciata esterna di una chiesa e non l’ aspetto di un compiuto arredo di una quota d’ interno. (fotocopie)

Purtroppo molte tele che oggi si vedono in S. Croce, sono state sostituite a quelle originali, perché tra il 1814 e il 28 l’ era Napoleonica aveva segnato il tramonto dei Celestini; e allontanati dalla città, S. Croce rimase abbandonata tantè che arrivò a diventare una stalla, fu saccheggiata da molti ladri laici.

Due altari furono tolto dai loro posti e trasportati nella chiesa di S. Matteo dove vi sono tuttora, si asportarono le grandi tele del soffitto e della sovrapporta, le campane, l’ organo. Il 30 gennaio 1828 cominciarono i restauri e il rifacimento di nuove tele presenti oggi in S. Croce.

La Chiesa fu restituita al culto nel 1833 affidandola all’ arciconfraternita della Trinità dei Pellegrini.

Nella chiesa di S. croce vi sono alcuni dipinti situati nelle cappelle molto interessanti; nella navata destra, la 1° cappella, quella  di S. Antonio da Padova vi è una tela raffigurante il santo col bambin Gesù fatta da Oronzo Tiso (fotocopie).

Nella seconda cappella c’ è l’ altare del Presepe (la Natività) la tela raffigura l’ adorazione dei pastori di Giovan Battista Lama. (fotocopie)

 Un tempo questa cappella era dove si passava dal braccio destro alla sacrestia, ed era la cappella dei Persone che venne tramandata tra i suoi avi. Essa si chiamava di S. Borromeo; rifatta con il consenso dei Persone vennero apportati alcuni abbellimenti fatti dai frati nel 1773. Oggi sotto il nome di natività fu permesso di apporre due lapidi e sulla tomba che rimane della vecchia cappella di poter mettere l’ impresa della sua famiglia e nella nuova cappella di mettere il medaglione di S. Carlo Borromeo.

Nella terza cappella c’è la tela di S. Michele Arcangelo (fotocopie).

Nella quarta cappella c’è quella di S. Filippo Neri.

Nella quinta c’è quella di S. Oronzo (tela votiva realizzata dopo lo scampato pericolo del terremoto del 20/2/1743 (fotocopie).

Nella sesta c’è la tela del Sacro Cuore di Gesù di Federico Lazzaretti.

All’esterno del transetto c’è l’altare della Croce del Penna (fotocopia).

Di fronte al transetto destro c’è l’altare del Sacramento il dipinto in legno è di Gianserio Strafella è rappresentata la Trinità. (fotocopie)

Nel transetto sinistro invece, abbiamo nella  prima cappella l’altare di S. Celestino con la tela Pier Celestino dov’è rappresentata la rinuncia del Santo alla Tiara (fotocopie)

Nella seconda cappella è rappresentata l’Immacolata.

Nella terza cappella l’ annunciazione della Vergine.

Nella  quarta cappella c’è la Madonna del Carmine (tela di Giovanni Stano da Manduria).

 Nella quinta S.  Andrea Avellino (tela del Riccardi).

Nella sesta S. Irene e nella settima la deposizione della croce o Pietà (tela di Federico Lazzaretti).

Nel transetto sinistro, di fronte c’è l’altare di San Francesco di Paola sculture di F. Antonio Zimbalo. (foto e fotocopie)

Sul soffitto è raffigurata la Santissima Trinità: tela di Giovanni Grassi (foto).

 

3a. PARTICOLARE (ALTARE DI S. FRANCESCO DI PAOLA)

 

Un opera di grandissimo valore scultoreo è senza dubbio l’ altare di S. Francesco di Paola del 1615, dove lo scultore F.A. Zimbalo con l’ utilizzo della colonna tortile e superdecorata divenne il simbolo del Barocco Leccese nella sua stucchevole edilizia degli altari.

Fu commissionata da Giovanni Cicala, barone di Sternatia (LE), erige il sepolcro in S. Croce per se e per i suoi cari.

Questo altare conferma il ruolo di figura perfettamente organica ad un clima religioso.

Qui non rinuncia al valore emblematico delle colonne che sporgono senza alcuna funzione portante.

Non subordina le immagini sacre e il loro messaggio è assai esplicito alla confusione dell’ insieme.

Inserisce questi requisiti nello spazio nazionale riccardiano già nella sua ortogonalità che viene contraddetta dalle angolazioni e convergenze zimbalesche.

L’ artista ricorre anche all’ allusione scenica della prospettiva; è un carattere “d’ invito”, da notare l’ inclinazione del basamento delle colonne di 45°.

Le sei colonne hanno perso ogni funzione di sostegno di un eventuale frontone o del tetto: esse sporgono in avanti offrendosi alla vista nella loro festosa eleganza trasfigurata dall’ intensa decorazione che le ricopre. Una decorazione di tralci, corolle, croci altomedioevali (ben note ad Otranto nella cripta della basilica).

Ha una chiara direzione prospettica che converge verso le immagini dei santi (oggi assenti), S. Francesco di Paola, S. Carlo Borromeo e S. Leonardo; fino ad incontrare il disco fiammeggiante che reca la scritta Charitas sormontata da una corona attraversata da un mazzo di gigli. Tra le colonne è esposta una serie di dodici pannelli, con le storie del santo, tre delle quali riguardano la liberazione di Otranto. (fotocopie)

 

 

 

3b. ANALOGIE VARIE ( tra S. CROCE e il Duomo di Minervino)

 

A Giovanni Tarantino si attribuiscono alcune opere quali: il Duomo di Minervino (1573)(foto), S. Domenico di Nardò, S. Domenico di Muro e il campanile di Copertino (1588-1603).

Se si segue l’ itinerario ricostruito l’ opera di Tarantino copre l’ arco di trenta anni circa.

La sua prima presenza nel 1573 per il Duomo di Minervino, segnò l’ incontro con del Riccardi.

La struttura geometrica dell’ abside di Minervino richiama la padrona della concezione plastica del Riccardi. (fotocopia e foto)

La struttura di questa opera ha lo stesso gioco plastico-geometrico, all’ esempio del pilastro che ingloba una colonna del Sedile di Lecce, del fianco destro di S. Croce, del tamburo esterno della cupola dei Celestini a Lecce. (fotocopie)

Nella cupola di S. Croce e nell’ abside di Minervino una concezione geometrica analoga viene applicata ad un volume già curvo di per sè.

Nella cupola di Santa Croce, alle 8 nicchie la cui concavità è appena avvertibile entro il tamburo, di cui 4 sono forate dalle grandi finestre, corrispondono all’esterno 8 segni arcuati che scavano il cilindro del tamburo, scanditi da 8 colonne a tutto rilievo.

Ma lo spessore del tamburo è solo inciso da questi archi strambati poiché c’è la convessità all’estradosso delle nicchie a colmarne il vano, con una superficie curva più convessa della parete cilindrica del tamburo stesso.

Il gioco plastico si ottiene da 3 superfici curve: il cilindro del tamburo, il cilindro dell’estradosso delle nicchie e la superficie conica dello strambo degli archi.

A Minervino, questo stesso meccanismo interviene sul semicilindro dell’abside scavato all’interno da 5 nicchie semicircolari quindi ben più concave e scandite di quelle della cupola, analoghe a quelle dell’abside di Santa Croce ( analogia che aveva suscitato l’ipotesi della paternità riccardiana).

All’esterno si è voluto sperimentare,  l’intersezione di 3 superfici curve, segnando la curva absidale in corrispondenza della parte convessa dell’estradosso delle nicchie, con archi strambetti.

Ma l’eccezionalità della soluzione deriva dal fatto che la struttura geometrica di pianta è tale da non lasciare spazio di riposo tra un arco e l’altro.

Gli archi impegnano completamente la superficie cilindrica dell’abside, giungendo ad accostarsi l’un l’altro in una perfetta tangenza, che lascia comparire su detta superficie una pura linea verticale senza spessore. (foto e fotocopia)

Tale linea dal punto di vista costruttivo, diviene lì spigolo di un pilastro ruotato a 45° gradi rispetto alla tangente alla curva del muro.

Questo lo si può capire se si guardano le fotocopie.

Ma se  la maestria della soluzione absidale del duomo di Minervino e la sua analogia con l’ abside di Santa Croce di Lecce ci richiamano il Riccardi; il corpo della chiesa con la sua forte e ingenua struttura muraria, costituita da piatte cappelle archivoltate e ribassate, con le ghiere trattate a grossi ovuli dal corposo intaglio ci richiama senza dubbio il Tarantino.

Il rosone di Minervino sopra il portale ricorda i due rosoni laterali di Santa Croce riccardiani.

E anche i capitelli con le figure nude ricordano Santa Croce (fotocopie).

Tutto ciò vale a dire che qui c’è stato l’incontro tra il grande maestro leccese e il primordiale maestro di Nardò.

 

 4. RESTAURI VARI

 

4a. IL RESTAURO DEL PARAMENTO LAPIDEO DELLA FACCIATA

 

Nel 1980 la caduta di parte di un angelo laterale del secondo ordine della facciata richiamò drammaticamente l’attenzione sul grave stato di degrado raggiunto dalle strutture e dalle superfici lapidee della chiesa.

Le verifiche eseguite dai tecnici della sopraintendenza per i Beni Ambientali, Arcittettonici, Artistici e Storici della Puglia, avevano accertato che il grave stato di degrado dell’intera facciata.

Su tutto il paramento erano visibili diffuse fratture sia dei conci che dei giunti che compromettevano la stabilità stessa delle numerose scultura.

La Soprintendenza si è avvalsa della consulenza dell’istituto di geologia applicata e geotecnica della facoltà di ingegneria di Bari.

La prima fase dell’intervento ha riguardato il consolidamento statico e la revisione e adeguamento dei sistemi di smaltimento delle acque meteoriche.

I provvedimenti di carattere statico adottati hanno consentito di ripristinare il collegamento tra le strutture portanti, migliorando la morsatura delle murature ricorrendo alla tecnica delle iniezioni armate. Il sistema di perforazione a raggiera è stato realizzato nella parte terminale del prospetto al fine di irrigidire il tratto a vela della facciata.

Nell’ attuazione dell’ intervento conservativo delle superfici è stato necessario ricorrere a tecniche esecutive, in grado di restituire al materiale, almeno in parte , le proprietà meccaniche perse con il progredire del degrado. Tale operazione appariva indispensabile per poter arrivare alla conservazione del monumento in tutte le sue specifiche accezioni.

I danni sulle superfici rese inaccettabile il ricorso a tecniche tradizionali di intervento che, per i monumenti realizzati in pietra leccese, si sono sempre identificate con operazioni di sostituzione delle parti maggiormente degradati.

I documenti d’archivio registrano un consistente restauro eseguito nel 1934 che portò al completo rifacimento della parte inferiore del prospetto per un altezza di circa 3 metri, alla sostituzione di alcune basi delle colonne del primo ordine, colonnine e pilastrini posti sulla balconata tra il primo e il secondo ordine.

 

4b. INDAGINI SCIENTIFICHE PER IL RESTAURO

 

Sono state effettuate indagini di tipo diagnostico per definire lo stato di conservazione del paramento lapideo e sperimentazioni, di laboratorio per individuare metodologie più idonee.

L’ alterazione della pietra si manifestava con gravità diversa, nelle diverse zone della facciata:  dal buono stato di conservazione del rosone a condizioni di grave alveolizzazioni, disgregazione profonda, fratturazione, distacco di croste che interessavano le parti più basse, la balaustra è di Puttini, e in generale tutto il secondo ordine e il fastigio.

Attacchi di alghe e licheni in tutte le zone più frequentemente ed abbondantemente bagnate dalla pioggia.

Le cause principali della alterazione sono: la natura stessa della pietra, una biocalcarenite fortemente porosa e la stessa acqua e la presenza di quantità elevate di sali solubili.

La decisione di eseguire la pulitura delle sculture senza l’ impiego di acqua o di soluzioni acquose, vista l’ impossibilità pratica di estrarre i sali solubili senza danneggiare la pietra, si utilizzò mezzi meccanici di precisione.

Sono state inoltre sottoposti per oltre due anni, a controlli di calore e di assorbimento di acqua alcuni prodotti ad azione idrorepellente con i quali erano state trattate alcune piccole zone non scolpite; sulla base di criteri, di giudizi obiettivi, hanno permesso di scegliere i prodotti da impiegare per il consolidamento e la protezione della pietra.

 

4c. LE METODOLOGIE DI INTERVENTO

 

I lavori di restauro condotti sulla facciata hanno reso evidente, fin dalle prime fasi operative , la gravità dello stato di conservazione del monumento.

Le accurate indagini del laboratorio hanno indicato i necessari adeguamenti delle metodologie di intervento, suggerendo materiali e procedure operative diverse in relazione ai sempre nuovi problemi da risolvere.

Le operazioni di preconsolidamento, preliminari alla pulitura della superficie lapidea sono state effettuate nelle zone di maggiore decoesione del materiale, con un consolidante inorganico.

I depositi biologici, diffusi su vaste zone della facciata, sono state asportati in conseguenza della loro produzione di metaboliti acidi che provocano attacchi chimici sulla superficie lapidea accentuandone il degrado. La rimozione meccanica dei licheni è stata integrata con l’ applicazione dell’ acqua ossigenata.

Si è proceduto poi alla pulitura, eseguita con differenti sistemi. Inizialmente sono state utilizzate miscele debolmente basiche, successivamente solo mezzi meccanici. Questo secondo, più idoneo alla composizione del materiale, mentre il primo, con l’ apporto di sostanze acquose poteva innescare cicli di solubilizzazione e cristallizzazione dei sali solubili presenti in concentrazioni elevate nella pietra.

Il consolidamento è stato ottenuto con l’ applicazione successiva di due diversi prodotti: il silicato di etile è stato scelto per le sue proprietà di miglioramento delle caratteristiche fisiche della terra; La resina acrilica usata per quelle parti di materiale di disgregazione più superficiale.

Le stuccature e le microstuccature delle fratture e delle fessurazioni sono state eseguite con malte a base di polvere della stessa pietra e calce idraulica. (Conza!)
 
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