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RIALCALINIZZAZIONE ELETTROCHIMICA DELLE COLONNE IN CALCESTRUZZO ARMATO DEL CAMPA
Postato il di edilweb
Articoli di ingegneria strutturale
Le strutture storiche in calcestruzzo armato soffrono spesso di degrado da carbonatazione dovuto all’esposizione, da diversi decenni, ad ambienti rurali o urbani. La carbonatazione del calcestruzzo può indurre la corrosione delle armature e i conseguenti fenomeni di fessurazione, delaminazione e distacco del copriferro (Fig. 1), mettendo a rischio la funzionalità e la stabilità della struttura, oltre al suo aspetto estetico. Il restauro di strutture danneggiate dalla corrosione da carbonatazione consiste generalmente nella rimozione del calcestruzzo carbonatato e nella sua sostituzione con una malta alcalina (Fig. 2). Tuttavia, nel settore degli edifici storici e dei beni culturali viene spesso richiesto di conservare i materiali e le superfici originali. Da questo punto di vista, le tecniche elettrochimiche possono rappresentare un valido metodo poiché non necessitano della rimozione di tutto il calcestruzzo carbonatato: solo il calcestruzzo danneggiato deve essere rimosso. Il restante calcestruzzo, ancorché carbonatato, può essere lasciato in opera. La rialcalinizzazione elettrochimica è una tecnica (1-3) che si basa sull’applicazione di una corrente esterna all’armatura di acciaio; la corrente viene applicata attraverso un anodo temporaneo posto sulla superficie del calcestruzzo. L’obiettivo del metodo è quello di ripristinare l’alcalinità del calcestruzzo attraverso due effetti (4-7): la produzione di alcalinità alla superficie dell’armatura (dovuta alla corrente applicata, (8)) e l’ingresso dalla superficie esterna della soluzione alcalina in cui l’anodo è immerso. La rialcalinizzazione del calcestruzzo ricrea un ambiente favorevole alla ripassivazione dell’acciaio. Al termine del trattamento, l’anodo viene rimosso e la struttura è restaurata conservando per quanto possibile i materiali e le superfici originali (Fig. 3).

da Enco Journal n.46




In questa nota si descrive l’applicazione della tecnica della rialcalinizzazione elettrochimica ad un edificio storico, con il duplice obiettivo di porre sotto controllo la corrosione delle armature e conservare i materiali. Il campanile della chiesa di S. Antonio abate di Valmadrera (LC) , costruito negli anni ’20, è una struttura che si articola secondo elementi costruttivi differenti ed è costituita da materiali diversi (Fig. 4). La base della torre, costituita da blocchi in matrice cementizia, si eleva per circa 40 m; la parte superiore, estesa per circa 8 m, è realizzata con mattoni. Su di essa si imposta la torre vera e propria, che si eleva per altri 30 m, ed è costituita dalla cella campanaria, da un piano intermedio e dal tempietto circolare costituito da otto colonne sovrastate dalla cupola (ogni colonna è stata identificata con una lettera, A-H, Fig. 5). Le colonne sono cave: lo spessore del calcestruzzo è all’incirca di 55 mm. Ogni colonna appoggia su un basamento alto 0.75 m ed è sovrastata da un capitello. All’esterno del tempietto, in corrispondenza dei quattro angoli, sono posizionate le statue degli Evangelisti. La torre campanaria termina a circa 80 m dal suolo con una cupola in calcestruzzo armato sorretta dalle colonne. Le strutture e le finiture in calcestruzzo armato del campanile presentano evidenti segni di degrado, dovuti principalmente alla corrosione delle armature in acciaio e al conseguente danneggiamento e distacco del copriferro.



DIAGNOSI

Nell’ambito dell’intervento di restauro del campanile sono state ispezionate tutte le parti in calcestruzzo armato attraverso osservazioni visive, misure di profondità di carbonatazione, misure di potenziale e di spessore di copriferro. In particolare, nella fase iniziale di ispezione visiva, sulle colonne si sono evidenziati diversi punti in cui la corrosione delle armature aveva danneggiato il calcestruzzo. Si è rilevata la presenza di fessure, delaminazioni e distacchi di copriferro (Figure 6 e 7). Da alcune colonne sono stati prelevati dei campioni di calcestruzzo per determinare la profondità di carbonatazione attraverso la prova alla fenolftaleina. Queste analisi hanno mostrato una grande variabilità nello spessore di calcestruzzo carbonatato: si è passati da uno spessore di 1 mm a uno spessore di 55 mm (pari all’intero spessore della parete di calcestruzzo). La carbonatazione ha mostrato profondità molto variabili anche su una stessa colonna. Analogamente, lo spessore di copriferro misurato sulle staffe di contenimento ha mostrato una distribuzione irregolare: ad esempio, sulla colonna A aveva un valore medio pari a 22 mm, con valori minimo e massimo pari rispettivamente a 11 e 35 mm. Sulla colonna B, il valore medio è risultato pari a 42 mm, con valori minimo e massimo rispettivamente pari a 25 e 58 mm (in quest’ultimo caso il copriferro è risultato quindi trascurabile sulla faccia interna della colonna).


Le misure elettrochimiche del potenziale dell’armatura e della resistività del calcestruzzo, effettuate sia sulle colonne tal quali che dopo abbondante bagnamento con acqua, hanno evidenziato come il calcestruzzo fosse compatto e con una bassa permeabilità.

Nelle zone in cui il calcestruzzo è risultato essere carbonatato, in corrispondenza della superficie delle armature, c’era il rischio che in tempi relativamente brevi la corrosione possa portare alla fessurazione o al distacco del copriferro. Si è, quindi, ritenuto necessario intervenire per bloccare il processo corrosivo. All’intervento si è posto l’obiettivo di rimediare ai danneggiamenti esistenti e di garantire che il degrado non si ripresenti almeno per qualche decina di anni.

Sia il progetto sia la realizzazione del restauro hanno presentato delle peculiarità, in relazione soprattutto alla necessità di conservare i materiali esistenti. Questa esigenza nasce non solo da considerazioni di tipo conservativo, ma anche da implicazioni di natura strutturale. In particolare, nel caso delle colonne, il modesto spessore della parete di calcestruzzo rende praticamente impossibile l’intervento di restauro tradizionale basato sulla rimozione del calcestruzzo carbonatato e la sua sostituzione con una malta da ripristino. L’analisi di questi requisiti ha portato per le otto colonne alla scelta dell’intervento di recupero basato sulla rialcalinizzazione elettrochimica; alla base di questo intervento, infatti, c’è il principio di evitare la rimozione del calcestruzzo non più protettivo (perché carbonatato), e di trasformarlo di nuovo in un materiale alcalino che protegga le armature dalla corrosione. L’applicazione del trattamento è avvenuta in due fasi: inizialmente la rialcalinizzazione è stata applicata su due piccole zone per calibrare i parametri del processo; successivamente è stata applicata a tutte le colonne. I dettagli del trattamento e dei risultati delle analisi effettuate durante e al termine di tale applicazione sono riportati nel riferimento [9].

Le procedure concernenti il processo costruttivo del sistema del Post-Teso, prevedono la qualifica dell’impianto di betonaggio al fine di garantire il mix-design del calcestruzzo come progettato ed il controllo puntuale della miscela fornita, verificandone preventivamente la qualità già presso il Fornitore.

La posa in opera del calcestruzzo è preferibilmente effettuata con tecnologia Laser Screed (Fig.4), la vibrofinitrice a controllo laser dotata di staggia vibrante, che ne garantisce un’elevata compattazione unitamente ad un alto livello di planarità; contestualmente al getto si collocano i distanziatori in corrispondenza degli incroci della maglia dei trefoli, per posizionare la stessa in asse baricentrico, e si effettuano le operazioni di vibrazione ad ago, nella zona del cassero di chiusura.

TRATTAMENTO PRELIMINARE

La rialicalinizzazione elettrochimica è stata inizialmente applicata alle colonne C ed E (Fig. 5), su un’altezza di circa 1 m al di sopra del basamento.

La preparazione delle colonne ha previsto:

- la realizzazione dei collegamenti elettrici (Fig. 8);
- la posa di elettrodi di riferimento di titanio attivato per le misure di monitoraggio durante il trattamento (Fig. 8);
- la riparazione localizzata del calcestruzzo danneggiato e la sigillatura delle fessure (Fig. 8);
- l’applicazione del sistema anodico (Figg. 9 e 10), costituito da polpa di cellulosa impregnata di una soluzione alcalina di carbonato di sodio, nella quale è stata immersa una rete di acciaio zincato o di titanio attivato;
- l’applicazione della corrente (Fig. 11), con una densità di corrente di 0.8 A/m2 (riferita alla superficie delle armature) per 17 giorni.

Durante il trattamento è stato monitorato il potenziale dell’armatura; al termine del trattamento sono state effettuate analisi sul calcestruzzo, come la prova alla fenolftaleina e la determinazione del contenuto di sodio (10). I risultati di queste analisi hanno mostrato che la penetrazione dell’elettrolita alcalino (Na2CO3) dalla superficie esterna ha interessato solo lo strato più superficiale del calcestruzzo, dello spessore di pochi millimetri (come confermato dai valori dell’analisi del contenuto di sodio, effettuata mediante spettroscopia di emissione al plasma, riportati nel grafico di Fig. 12). Questo può essere attribuito alla bassa permeabilità del calcestruzzo. Il contributo alla rialcalinizzazione, dovuto alla reazione alla superficie dell’armatura, ha invece interessato considerevoli spessori di calcestruzzo (Fig. 13).











TRATTAMENTO COMPLETO

In seguito alla sperimentazione preliminare, il trattamento di rialcalinizzazione elettrochimica è stato applicato a tutte le colonne (eccetto le zone che erano già state trattate nella sperimentazione), inclusi i relativi capitelli.

La preparazione delle colonne è avvenuta in modo analogo alla sperimentazione, con la differenza che invece della polpa di cellulosa si è utilizzata carta di giornale.

Il contatto elettrico con l’armatura è stato fatto in più punti, data l’estensione delle colonne. Inoltre, all’interno di ogni colonna è stato posizionato un elettrodo di riferimento di titanio attivato per le misure di potenziale. Su ogni colonna sono state sigillate le fessure, i distacchi e le altre discontinuità presenti nel calcestruzzo. Ogni colonna è stata rivestita con diversi strati di carta di giornale, avvolta con la rete di acciaio zincato, quindi con un altro strato di giornali e infine con la pellicola di polietilene (Fig. 14). La carta di giornale è stata bagnata con una soluzione di carbonato di sodio versata all’interno della pellicola dall’alto di ogni colonna, in corrispondenza dei capitelli, verificando che la soluzione arrivasse a bagnare anche la carta posta alla base delle colonne. Nel trattamento completo si è utilizzata una soluzione meno concentrata di quella usata nel trattamento preliminare.

Il trattamento è stato effettuato applicando una densità di corrente di 0.8 A/m2 per 3 settimane.

Al termine del trattamento, in alcuni punti delle colonne è stata verificata l’alcalinità del calcestruzzo, rimuovendo localmente il copriferro e spruzzando la superficie esposta con l’indicatore alla fenolftaleina. Queste analisi distruttive sono state effettuate in pochi punti, in modo da limitare il danneggiamento delle colonne. In tutti i casi il calcestruzzo è risultato alcalino sull’intero spessore di copriferro (Fig. 15).


CONCLUSIONI

Il trattamento di rialcalinizzazione elettrochimica è stato applicato alle colonne in calcestruzzo armato del campanile della Chiesa di S. Antonio abate a Valmadrera, sulle quali la carbonatazione del calcestruzzo aveva causato danneggiamenti dovuti alla corrosione delle armature.
Le misure dell’alcalinità e del contenuto di sodio nel calcestruzzo, effettuate al termine del trattamento, hanno consentito di evidenziare che il principale contributo alla rialcalinizzazione del calcestruzzo è dovuto alla produzione di alcalinità alla superficie delle armature dovuta alla corrente applicata. Grazie alla bassa permeabilità del calcestruzzo, si può ritenere che lo strato rialcalinizzato intorno alle armature possa garantire una protezione duratura.

RINGRAZIAMENTI

Gli autori desiderano ringraziare l’arch. Roberto Spreafico, l’ing. Franco Parolari, il dott. Rob Polder e i volontari della Parrocchia.

BIBLIOGRAFIA

1) L. Bertolini, B. Elsener, P. Pedeferri, R. Polder, Corrosion of Steel in Concrete. Prevention, Diagnosis and Repair, Wiley-VCH, Weinheim (2004).
2) COST, Corrosion of Steel in Reinforced Concrete Structures, COST Action 521, Final Report (2003).
3) CEN/TS 14038-1, Electrochemical Realkalization and Chloride Extraction Treatments for Reinforced Concrete, Part 1: Realkalization (2004).
4) L. Bertolini, T. Pastore, P. Pedeferri, E. Redaelli, Materials and Corrosion, 54, 163 (2003).
5) R.B. Polder, H.J. van den Hondel, Proc. RILEM Int. Conf. on Rehabilitation of Concrete Structures, August-September 1992, Melbourne (1992).
6) Noteby (Norsk Teknisk Byggekontrol), Norwegian Patent Application No. 875438 (1987).
7) O. Vennesland, J.B. Miller, Electrochemical Realkalisation of Concrete, European Patent Specification No. 0264421 (1992).
8) J. Mietz, Materials and Corrosion, 46, 527 (1995).
9) L. Bertolini, M. Carsana, E. Redaelli, Journal of Cultural Heritage, 9, (2008).
10) A.W.M. van den Hondel, R.B. Polder, Proc. Int. Conf. Eurocorr 2001, Riva del Garda (2001).



 
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