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ZEOLITI IN STRUTTURE PORTUALI DELL’ANTICA ROMA
Postato il di edilweb
Articoli di ingegneria strutturale
Le ragioni della lunga sopravvivenza della civiltà romana e della capacità di estendere e conservare il suo dominio su territori spesso distanti migliaia di chilometri, sono state e sono oggetto di molteplici discussioni e interpretazioni, non sempre del tutto concordanti. Su un fatto comunque, innegabile, convergono i giudizi degli studiosi: il successo che arrise alle istituzioni dell’antica Roma, Repubblica e poi Impero, fu dovuto in parte non trascurabile alla grande capacità dei suoi architetti e dei suoi costruttori di progettare e far eseguire a maestranze, peraltro ben addestrate e dotate di grande perizia, opere edilizie di notevole portata.

Alcuni degli straordinari monumenti dell’antica Roma ci sono giunti pressoché integri – e le mancanze sono spesso dovute più ad incuria e insensibilità degli antichi fruitori che alle ingiurie del tempo – ma, per quanto caratterizzate da minore visibilità, furono soprattutto le infrastrutture le opere che fecero grande la civiltà romana. Nella costruzione di vie di comunicazione, fondazioni, serbatoi e sottoservizi, strutture portuali, dighe, acquedotti, sistemi fognari ed altro, i Romani furono capaci di accoppiare ad una tecnica costruttiva di avanguardia, con soluzioni architettoniche di grande efficacia, una cura, per certi versi, maniacale nella scelta dei materiali, che finì per essere funzionale all’edificazione di strutture durevoli e dotate di grande solidità1.

da Enco Journal n.45


Tale favorevole risultato è in buona parte legato al ricorso a calcestruzzi innovativi, basati sull’associazione calce-pozzolana, che alle rilevanti resistenze meccaniche e alla conseguente notevole durevolezza , accoppiavano la capacità di far presa ed indurire anche in ambiente subacqueo. Tali materiali, che conobbero il massimo successo soprattutto in epoca imperiale2, erano per la verità già noti ai Fenici – che avevano usato, però, al posto della pozzolana, polvere di mattone cotto – e specialmente ai Greci, che, in età classica, per la fabbricazione della malta “idraulica” impiegavano una sabbia vulcanica, simile alla pozzolana, proveniente dall’isola di Santorini, nelle Cicladi3. I Romani ebbero, peraltro, il merito di comprendere le notevoli potenzialità del materiale, portando a livelli di estrema razionalizzazione le sue modalità d’impiego.

Un impareggiabile strumento per affrontare e risolvere problemi connessi con l’arte del costruire fu, senza dubbio, il De Architectura di Vitruvio4, un manuale all’epoca molto diffuso, ricco di indicazioni estremamente precise in merito alla scelta e alle modalità di utilizzazione dei materiali da costruzione. Ma analoghi suggerimenti erano anche inclusi nel Naturalis Historia di Plinio il vecchio5, di concezione peraltro più ampia e quindi meno specifico.

Fu quindi proprio Vitruvio che nel suo trattato dettò le regole per una corretta preparazione di malte e calcestruzzi, sottolineando l’importanza della qualità delle materie prime, e dei pre-trattamenti cui dovevano essere sottoposte (ad esempio, la “macerazione”, ovvero lo spegnimento, della calce), e dando precise indicazioni sulla loro composizione in relazione agli specifici usi. Nel trattato è spesso menzionata la pozzolana di Baia o di Cuma (ad ovest di Napoli), che “fa gagliarda non solo ogni specie di costruzione ma particolarmente quelle che si fanno in mare sott’acqua” (II libro, cap. VI). E proprio a proposito delle costruzioni di strutture marittime, ecco quel che Vitruvio scrive nel cap. XII del V libro: “Queste costruzioni nell’acqua così sembrano doversi fare: si prenda l’arena [pozzolana] da quelle regioni che da Cuma si estendono fino al promontorio di Minerva [Massa Lubrense, nella penisola sorrentina] e si adoperi in modo che nella miscela due parti di arena corrispondono ad una di calce. Indi nel luogo, che sarà stato stabilito, si calino dentro l’acqua cassoni senza fondo formati con travicelli e legami in legno rovere, e fortemente si fissino con ritegni: di poi con rastrelli si eguagli e si spurghi quella parte di fondo di mare che rimane dentro i medesimi, indi vi si gettino cementi [rottami di pietre] mescolati con la miscela formata come di sopra si è scritto, fintantoché venga riempito di costruzione il vuoto interno dei calcestruzzi”.

V’erano dunque tutte le condizioni – lo possiamo naturalmente dire col senno di poi – per ottenere strutture gagliarde e soprattutto capaci di durare nel tempo. Tali rilevanti prestazioni sono state del resto recentemente confermate, nell’ambito di un apposito progetto,6 attraverso analisi comparate di calcestruzzi romani e materiali di analoga costituzione, ottenuti sperimentalmente con le ricette di Vitruvio7.

Le straordinarie proprietà della pozzolana flegrea, ritenute all’epoca pressoché uniche8, fecero sì che il suo impiego, superando gli angusti limiti locali, si affermasse anche nell’area mediterranea, con rilevanti ricadute, si immagina, anche di carattere commerciale. Si sa, ad esempio, per certo che la pozzolana è stata usata nel I sec. d. C. per la costruzione delle strutture marittime di Caesarea (all’epoca in Palestina, oggi sul litorale mediterraneo di Israele, fra Haifa e Tel Aviv). Più antiche sono le opere portuali lungo il litorale tirreno, di cui restano testimonianze a Cosa, in Toscana, Anzio ed altre città laziali, nelle quali pure fu utilizzata pozzolana, proveniente dai siti vulcanici ad ovest di Napoli6.

**************

In considerazione delle analogie genetiche e costituzionali della pozzolana e del tufo a matrice zeolitica9, ci si può chiedere se sia ammissibile la presenza di zeoliti in strutture basate sul cemento romano e nel caso che la risposta sia positiva se tale presenza sia accidentale o intenzionale.

Al primo quesito si può dare risposta positiva, almeno in linea di principio: pur se non utilizzate consapevolmente, le zeoliti costituiscono infatti un normale componente, per quanto secondario, delle pozzolane. La sua presenza non potrebbe, peraltro, che essere marginale e soprattutto subordinata alla possibilità che parte del materiale pozzolanico aggiunto non abbia reagito.

Riguardo al fatto che il tufo possa essere stato consapevolmente aggiunto nelle malte come componente ad attività pozzolanica, non vi sono evidenze e peraltro non vi è alcuna indicazione al riguardo nelle pagine di Vitruvio, pur essendo il tufo considerato un materiale pregiato come aggregato, ovvero come rottame di pietra, soprattutto quando si voleva alleggerire la struttura. In questo caso, non sarà sfuggito ai costruttori romani la forte interazione superficiale, che si veniva a generare fra legante e aggregato tufaceo, in conseguenza di fenomeni di adesione di natura prettamente chimica.

L’evidenza dell’uso di rottami o frammenti di tufo nei conglomerati romani, al di là del dettato di Vitruvio, è peraltro comune nelle cosiddette murature a sacco, ma ve ne è traccia anche in strutture di maggiore consistenza, come quelle di opere portuali o marittime. Nei resti archeologici del porto di Cosa, ad esempio, è stata rilevata la presenza di materiali tufacei provenienti dai Vulsini, mentre la pozzolana è detta di origine flegrea10.

Recenti ricerche sono andate ancora oltre, avendo rilevato sperimentalmente, attraverso probanti analisi diffrattometriche con i raggi X, la presenza di minerali zeolitici nelle strutture marittime di Cosa e di Anzio (e aree viciniori)6. Le zeoliti rinvenute sono quelle tipiche dei depositi sedimentari italiani, ovvero phillipsite, cabasite e analcime. Ma le risultanze delle analisi meritano qualche osservazione e non sono prive di sorprese.

Partiamo dalle risultanze sperimentali:
(1) in accordo con quanto affermato dagli autori, le analisi diffrattometriche si riferiscono alle malte e non agli aggregati;
(2) la distribuzione dei singoli termini zeolitici nei vari campioni di malta esaminati è diseguale, sia in termini di tipologia che di abbondanza;
(3) in genere le zeoliti sono componenti minori e si riconosce un’associazione phillipsite-analcime;
(4) in un campione proveniente da Anzio si rileva un’associazione cabasite-analcime, del tutto inusuale, per di più con la cabasite minerale predominante nella malta;
(5) in un campione proveniente da Cosa l’analcime, piuttosto abbondante, è l’unico minerale zeolitico.

Lungi dal voler trarre affrettate conclusioni da detti risultati e dando per scontata una certa approssimazione (le analisi non sono quantitative e qualche componente minore, anche zeolitico, potrebbe essere sfuggito), non si può non osservare che almeno in alcuni casi (vedi punti 4 e 5) le zeoliti rilevate, data la loro abbondanza, non potevano essere parte della pozzolana, ma sono compatibili con la possibilità d’impiego di tufo macinato. Le differenti tipologie e associazioni di minerali zeolitici nelle malte esaminate inducono peraltro a ritenere che i materiali pozzolanici utilizzati non avessero la stessa origine. Mentre i campioni relativi al punto 3 possono essere, infatti, considerati indizio dell’uso di una pozzolana flegrea, è difficile che lo possano essere anche quelli dei punti 4 e 5, che sono compatibili con associazioni genetiche locali e sono peraltro quelli che, data l’abbondanza delle fasi zeolitiche, lasciano plausibilmente pensare all’impiego di tufo macinato.

La conclusione, dunque, che è una pura ipotesi di lavoro, ma che non manca certamente di coerenza, è che i costruttori romani, pur impiegando pozzolana “originale”, non trascuravano la possibilità di usare, per economia, prodotti litici locali, stante il fatto che i materiali incoerenti corrispondenti alle pozzolane flegree, pur essendo presenti nelle aree dei Vulsini, non erano certamente altrettanto comuni come quelli dei decantati depositi di Baia e di Cuma.


BIBLIOGRAFIA E NOTE

1 J.-P. Adam, L’arte di costruire presso i Romani. Materiali e tecniche, Longanesi, Milano, 2008, 370 pp.
2 T. N. Winter, “Roman concrete: the ascent, summit, and decline of an art”, Trans. Nebraska Academy of Sciences, 7 , 137-143 (1979).
3 C. Goria, Evoluzione storica dei leganti e dei conglomerati: dall’empirismo alla loro conoscenza razionale, in Cemento: Storia, Tecnologia, Applicazioni, Fratelli Fabbri Ed., Milano, 1976.
4 Dedicato ad Augusto, scritto tra il 27 e il 23 a.C. da Marco Vitruvio Pollione e diviso in 10 libri, fu “riscoperto” e tradotto in italiano in epoca rinascimentale. È stato il fondamento dell’architettura occidentale fino alla fine del XIX secolo.
5 Scritta da Gaio Plinio Secondo, detto “il vecchio”, in un lunghissimo arco di tempo è costituita da 37 libri. L’autore curò la stesura finale e la pubblicazione dei primi dieci libri nel 77 d.C. Il resto uscì in forma più approssimata, a cura del nipote Plinio “il giovane”, dopo la sua morte, avvenuta a Stabia nel 79, nel corso della catastrofica eruzione del Vesuvio.
6 J. P. Oleson, C. Brandon, S. M. Cramer, R. Cucitore, E. Gotti, R. L. Hohlfelder, “The ROMACONS Project: a Contribution to the Historical and Engineering Analysis of Hydraulic Concrete in Roman Maritime Structures”, The Int. Jour. of Nautical Archaeology, 33(2), 199-229 (2004).
7 E. Gotti, J. P. Oleson, L. Bottalico, C. Brandon, R. Cucitore, R. L. Hohlfelder, “A Comparison of the Chemical and Engineering Characteristics of Ancient Roman Hydraulic Concrete with a Modern Reproduction of Vitruvian Hydraulic Concrete”, Archaeometry, 50(4), 576-590 (2008).
8 In realtà i Romani, e prima di loro, quanto meno, i Greci e i Fenici, erano consapevoli delle “proprietà pozzolaniche” del cocciopesto, utilizzato proprio per ottenere strutture impermeabili all’acqua.
9 Questo è stato dimostrato, quanto meno per il tufo giallo napoletano, ben cinquanta anni fa (R. Sersale, “Genesi e costituzione del tufo giallo napoletano”, Rend. Accad. Sci. Fis. Mat. Soc. Naz. Sci. Lett. Arti (Napoli), 25, 181-207 (1958).
10 A. M. McCann, “The Harbor and Fishery Remains at Cosa, Italy”, Jour. of Field Archaeology, 6, 391-411 (1979).

 
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